Il primo novecento
La prosa narrativa: Un viaggio ne "male di vivere".
All'inizio del Novecento scoppia la prima guerra mondiale (1914-1918), che ebbe conseguenze molto gravi sull'economia a livello europeo, oltre che una profonda devastazione delle vite private e familiari, falcidiate da numerosissimi morti di soldati al fronte.
Davanti a drammi come la guerra molti autori scelsero la letteratura come mezzo di autoanilisi e riflessione profonda su di sé dato che il mondo esterno non dava allora risposte gli intellettuali e gli scrittori cercarono possibili soluzioni nel profondo della propria anima. Così apparvero romanzi come "la coscienza di Zeno" di Italo svevo e il" fu mattia pascal" e "uno, nessuno, centomila" di Luigi Pirandello.
I due autori, influenzati anche dalle nuove scoperte della psicoanalisi (un metodo di analisi della psiche e del suo funzionamento, elaborato da Sigmund Freud), creano personaggi che compiono un viaggio nel proprio mondo interiore svelando le riflessioni, i pensieri fissi, le manie, che rendono la loro vita angosciosa e piena di paure.
La poesia: fra silenzi e rotture futuriste.
La poesia si caratterizzaper il rifiuto della tradizione e la ricerca di forme libere e nuovo.
Il secolo si apre con due movimenti:
Italo svevo è uuno scrittore del novanta di cui abbiamo parlato ieri in classe la sua biografia non l'abbiamo fatta però a chi interna lascio un link quì sotto da "wikipedia"
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Italo_Svevo
Il testo che ieri abbiamo letto in classe è la madre sempre di svevo ed è pag. 383 del libro "leggere i classici" di letteratura.
Il testo è questo:
La madre
In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colori della pri-mavera, s’ergevano una accanto all’altra due grandi case disadorne,pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardinichiusi da siepi, posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa di-mensione e forma. Chi vi abitava non aveva però lo stesso destino.In uno dei giardini, mentre il cane dormiva alla catena e il contadinosi dava da fare intorno al frutteto, in un cantuccio, appartati, alcunipulcini parlavano di loro grandi esperienze. Ce n’erano altri di più an-ziani nel giardino, ma i piccini il cui corpo conservava tuttavia la formadell’uovo da cui erano usciti, amavano di esaminare fra di loro la vitain cui erano piombati perché non vi erano ancora tanto abituati da nonvederla. Avevano già sofferto e goduto perché la vita di pochi giorni èpiù lunga di quanto possa sembrare a chi la subì per anni, e sapevanomolto, visto che una parte della grande esperienza l’avevano portatacon sé dall’uovo. Infatti appena arrivati alla luce, avevano saputo chele cose bisognava esaminarle bene prima con un occhio eppoi con l’al-tro per vedere se si dovevano mangiare o guardarsene .E parlarono del mondo e della sua vastità, con quegli alberi e quellesiepi che lo chiudevano, e quella casa tanto vasta ed alta. Tutte coseche si vedevano già, ma si vedevano meglio parlandone.Però uno di loro, dalla lanuggine gialla, satollo– perciò disoccupato– non s’accontentò di parlare delle cose che si vedevano, ma trasse daltepore del sole un ricordo che subito disse: – Certamente noi stiamobene perché c’è il sole, ma ho saputo che a questo mondo si può stareanche meglio, ciò che molto mi dispiace, e ve lo dico perché dispiac-cia anche a voi. La figliuola del contadino disse che noi siamo tapini perché ci manca la madre. Lo disse con un accento di sì forte compas-sione ch’io dovetti piangere.
Un altro più bianco e di qualche ora più giovine del primo, per cui ri-cordava ancora con gratitudine l’atmosfera dolce da cui era nato, prote-stò: – Noi una madre l’abbiamo avuta. È quell’armadietto sempre caldo,anche quando fa il freddo più intenso, da cui escono i pulcini belli e fatti!Il giallo che da tempo portava incise le parole della contadina, e avevaperciò avuto il tempo di gonfiarle sognando di quella madre fino a fi-gurarsela grande come tutto il giardino e buona come il becchime,esclamò con un disprezzo destinato tanto al suo interlocutore quantoalla madre di cui costui parlava: – Se si trattasse di una madre morta,tutti l’avrebbero. Ma la madre è viva e corre molto più veloce di noi.Forse ha le ruote come il carro del contadino. Perciò ti può venire ap-presso senza che tu abbia il bisogno di chiamarla, per scaldarti quandosei in procinto di essere abbattuto dal freddo di questo mondo. Comedev’essere bello di avere accanto, di notte, una madre simile.Interloquì un terzo pulcino, fratello degli altri perché uscito dallastessa macchina che però l’aveva foggiato un po’ altrimenti, il beccopiù largo e le gambucce più brevi. Lo dicevano il pulcino maledu-cato perché quando mangiava si sentiva battere il suo beccuccio, men-tre in realtà era un anitroccolo che al suo paese sarebbe passato percompitissimo. Anche in sua presenza la contadina aveva parlato dellamadre. Ciò era avvenuto quella volta ch’era morto un pulcino crollatoesausto dal freddo nell’erba, circondato dagli altri pulcini che nonl’avevano soccorso perché essi non sentono il freddo che tocca aglialtri. E l’anitroccolo con l’aria ingenua che aveva la sua faccina invasadalla base larga del beccuccio, asserì addirittura che quando c’era lamadre i pulcini non potevano morire.Il desiderio della madre presto infettò tutto il pollaio e si fece più vivo,più inquietante nella mente dei pulcini più anziani. Tante volte le ma-lattie infantili attaccano gli adulti e si fanno per loro più pericolose, ele idee anche, talvolta. L’immagine della madre quale s’era formata inquelle testine scaldate dalla primavera, si sviluppò smisuratamente, etutto il bene si chiamò madre, il bel tempo e l’abbondanza, e quandosoffrivano pulcini, anitroccoli e tacchinucci divenivano veri fratelli per-ché sospiravano la stessa madre.Uno dei più anziani un giorno giurò ch’egli la madre avrebbe trovatanon volendo più restarne privo. Era il solo che nel pollaio fosse bat-tezzato e si chiamava Curra perché quando la contadina col becchimenel grembiale chiamava curra, curra,egli era il primo ad accorrere.
Era già vigoroso, un galletto nel cui animo generoso albeggiava la com-battività. Sottile e lungo come una lama, esigeva la madre prima ditutto perché lo ammirasse: la madre di cui si diceva che sapesse pro-curare ogni dolcezza e perciò anche la soddisfazione dell’ambizione edella vanità!Un giorno, risoluto, Curra con un balzo sgusciò fuori della siepe che,fitta, contornava il giardino natio. All’aperto subito sostò intontito.Dove trovare la madre nell’immensità di quella valle su cui un cieloazzurro sovrastava ancora più esteso? A lui, tanto piccolo, non era pos-sibile di frugare in quell’immensità. Perciò non s’allontanò di troppodal giardino natio, il mondo che conosceva, e, pensieroso, ne fece il giro. Così capitò dinanzi alla siepe dell’altro giardino.«Se la mamma fosse qui dentro» pensò «la troverei subito.» Sottrat-tosi all’imbarazzo dell’infinito spazio, non ebbe altre esitazioni. Con unbalzo attraversò anche quella siepe, e si trovò in un giardino molto si-mile a quello donde veniva.Anche qui v’era uno sciame di pulcini giovanissimi che si dibattevanonell’erba folta. Ma qui v’era anche un animale che nell’altro giardinomancava. Un pulcino enorme, forse dieci volte più grosso di Curra,troneggiava in mezzo agli animalucci coperti di sola peluria, i quali –lo si vedeva subito – consideravano il grosso, poderoso animale qualeloro capo e protettore. Ed esso badava a tutti. Mandava un ammoni-mento a chi di troppo s’allontanava, con dei suoni molto simili aquelli con cui la contadina nell’altro giardino usava coi propri pulcini.Però faceva anche dell’altro. Ad ogni tratto si piegava sui più deboli co-prendoli con tutto il suo corpo, certo per comunicar loro il propriocalore.«Questa è la madre» pensò Curra con gioia. «L’ho trovata ed ora nonla lascio più. Come m’amerà! Io sono più forte e più bello di tutti co-storo. Eppoi mi sarà facile di essere obbediente perché già l’amo.Com’è bella e maestosa! L’aiuterò anche a proteggere tutti cotesti in-sensati.»Senza guardarlo la madre chiamò. Curra s’avvicinò credendo di esserechiamato proprio lui. La vide occupata a smovere la terra con dei colpirapidi degli artigli poderosi, e sostò curioso di quell’opera cui egli as-sisteva per la prima volta. Quand’essa si fermò, un piccolo vermicellosi torceva dinanzi a lei sul terreno denudato dall’erba. Ora essa chioc-ciava mentre i piccini a lei d’intorno non comprendevano e la guarda-vano estatici.
«Sciocchi!» pensò Curra. «Non intendono neppure che essa vuoleche mangino quel vermicello.» E, sempre spinto dal suo entusiasmod’obbedienza, rapido si precipitò sulla preda e l’ingoiò.E allora – povero Curra – la madre si lanciò su lui furibonda. Non su-bito egli comprese, perché ebbe anche il dubbio ch’essa, che l’avevaappena trovato, volesse accarezzarlo con grande furia. Egli avrebbe ac-cettato riconoscente tutte le carezze di cui egli non sapeva nulla, e cheperciò ammetteva potessero far male. Ma i colpi del duro becco, chepiovvero su lui, certo non erano baci e gli tolsero ogni dubbio. Vollefuggire, ma il grosso uccello lo urtò e, ribaltatolo, gli saltò addosso im-mergendogli gli artigli nel ventre.Con uno sforzo immane, Curra si rizzò e corse alla siepe. Nella suapazza corsa ribaltò dei pulcini che stettero lì con le gambucce all’ariapigolando disperatamente. Perciò egli poté salvarsi perché la sua ne-mica sostò per un istante presso i caduti. Arrivato alla siepe, Curra,con un balzo, ad onta di tanti rami e sterpi, portò il suo piccolo edagile corpo all’aperto.La madre, invece, fu arrestata da un intreccio fitto di fronde. E là essarimase maestosa guardando come da una finestra l’intruso che, esau-sto, s’era fermato anche lui. Lo guardava coi terribili occhi rotondi,rossi d’ira: – Chi sei tu che ti appropriasti il cibo ch’io con tanta faticaavevo scavato dal suolo?– Io sono Curra – disse umilmente il pulcino. – Ma tu chi sei e perchémi facesti tanto male?Alle due domande essa non diede che una sola risposta: – Io sono lamadre, – e, sdegnosamente, gli volse il dorso.Qualche tempo appresso, Curra, oramai un magnifico gallo di razza,si trovava in tutt’altro pollaio. E un giorno sentì parlare da tutti i suoinuovi compagni con affetto e rimpianto della madre loro.Ammirando il proprio raro, atroce destino, egli disse con tristezza: – La madre mia, invece fu una bestiaccia orrenda, e sarebbe stato me-glio per me ch’io non l’avessi mai conosciuta.
All'inizio del Novecento scoppia la prima guerra mondiale (1914-1918), che ebbe conseguenze molto gravi sull'economia a livello europeo, oltre che una profonda devastazione delle vite private e familiari, falcidiate da numerosissimi morti di soldati al fronte.
Davanti a drammi come la guerra molti autori scelsero la letteratura come mezzo di autoanilisi e riflessione profonda su di sé dato che il mondo esterno non dava allora risposte gli intellettuali e gli scrittori cercarono possibili soluzioni nel profondo della propria anima. Così apparvero romanzi come "la coscienza di Zeno" di Italo svevo e il" fu mattia pascal" e "uno, nessuno, centomila" di Luigi Pirandello.
I due autori, influenzati anche dalle nuove scoperte della psicoanalisi (un metodo di analisi della psiche e del suo funzionamento, elaborato da Sigmund Freud), creano personaggi che compiono un viaggio nel proprio mondo interiore svelando le riflessioni, i pensieri fissi, le manie, che rendono la loro vita angosciosa e piena di paure.
La poesia: fra silenzi e rotture futuriste.
La poesia si caratterizzaper il rifiuto della tradizione e la ricerca di forme libere e nuovo.
Il secolo si apre con due movimenti:
- Movimento dei crepuscolari
- Movimento d'avanguardia del futurismo
Italo svevo è uuno scrittore del novanta di cui abbiamo parlato ieri in classe la sua biografia non l'abbiamo fatta però a chi interna lascio un link quì sotto da "wikipedia"
http://it.m.wikipedia.org/wiki/Italo_Svevo
Il testo che ieri abbiamo letto in classe è la madre sempre di svevo ed è pag. 383 del libro "leggere i classici" di letteratura.
Il testo è questo:
La madre
In una valle chiusa da colline boschive, sorridente nei colori della pri-mavera, s’ergevano una accanto all’altra due grandi case disadorne,pietra e calce. Parevano fatte dalla stessa mano, e anche i giardinichiusi da siepi, posti dinanzi a ciascuna di esse, erano della stessa di-mensione e forma. Chi vi abitava non aveva però lo stesso destino.In uno dei giardini, mentre il cane dormiva alla catena e il contadinosi dava da fare intorno al frutteto, in un cantuccio, appartati, alcunipulcini parlavano di loro grandi esperienze. Ce n’erano altri di più an-ziani nel giardino, ma i piccini il cui corpo conservava tuttavia la formadell’uovo da cui erano usciti, amavano di esaminare fra di loro la vitain cui erano piombati perché non vi erano ancora tanto abituati da nonvederla. Avevano già sofferto e goduto perché la vita di pochi giorni èpiù lunga di quanto possa sembrare a chi la subì per anni, e sapevanomolto, visto che una parte della grande esperienza l’avevano portatacon sé dall’uovo. Infatti appena arrivati alla luce, avevano saputo chele cose bisognava esaminarle bene prima con un occhio eppoi con l’al-tro per vedere se si dovevano mangiare o guardarsene .E parlarono del mondo e della sua vastità, con quegli alberi e quellesiepi che lo chiudevano, e quella casa tanto vasta ed alta. Tutte coseche si vedevano già, ma si vedevano meglio parlandone.Però uno di loro, dalla lanuggine gialla, satollo– perciò disoccupato– non s’accontentò di parlare delle cose che si vedevano, ma trasse daltepore del sole un ricordo che subito disse: – Certamente noi stiamobene perché c’è il sole, ma ho saputo che a questo mondo si può stareanche meglio, ciò che molto mi dispiace, e ve lo dico perché dispiac-cia anche a voi. La figliuola del contadino disse che noi siamo tapini perché ci manca la madre. Lo disse con un accento di sì forte compas-sione ch’io dovetti piangere.
Un altro più bianco e di qualche ora più giovine del primo, per cui ri-cordava ancora con gratitudine l’atmosfera dolce da cui era nato, prote-stò: – Noi una madre l’abbiamo avuta. È quell’armadietto sempre caldo,anche quando fa il freddo più intenso, da cui escono i pulcini belli e fatti!Il giallo che da tempo portava incise le parole della contadina, e avevaperciò avuto il tempo di gonfiarle sognando di quella madre fino a fi-gurarsela grande come tutto il giardino e buona come il becchime,esclamò con un disprezzo destinato tanto al suo interlocutore quantoalla madre di cui costui parlava: – Se si trattasse di una madre morta,tutti l’avrebbero. Ma la madre è viva e corre molto più veloce di noi.Forse ha le ruote come il carro del contadino. Perciò ti può venire ap-presso senza che tu abbia il bisogno di chiamarla, per scaldarti quandosei in procinto di essere abbattuto dal freddo di questo mondo. Comedev’essere bello di avere accanto, di notte, una madre simile.Interloquì un terzo pulcino, fratello degli altri perché uscito dallastessa macchina che però l’aveva foggiato un po’ altrimenti, il beccopiù largo e le gambucce più brevi. Lo dicevano il pulcino maledu-cato perché quando mangiava si sentiva battere il suo beccuccio, men-tre in realtà era un anitroccolo che al suo paese sarebbe passato percompitissimo. Anche in sua presenza la contadina aveva parlato dellamadre. Ciò era avvenuto quella volta ch’era morto un pulcino crollatoesausto dal freddo nell’erba, circondato dagli altri pulcini che nonl’avevano soccorso perché essi non sentono il freddo che tocca aglialtri. E l’anitroccolo con l’aria ingenua che aveva la sua faccina invasadalla base larga del beccuccio, asserì addirittura che quando c’era lamadre i pulcini non potevano morire.Il desiderio della madre presto infettò tutto il pollaio e si fece più vivo,più inquietante nella mente dei pulcini più anziani. Tante volte le ma-lattie infantili attaccano gli adulti e si fanno per loro più pericolose, ele idee anche, talvolta. L’immagine della madre quale s’era formata inquelle testine scaldate dalla primavera, si sviluppò smisuratamente, etutto il bene si chiamò madre, il bel tempo e l’abbondanza, e quandosoffrivano pulcini, anitroccoli e tacchinucci divenivano veri fratelli per-ché sospiravano la stessa madre.Uno dei più anziani un giorno giurò ch’egli la madre avrebbe trovatanon volendo più restarne privo. Era il solo che nel pollaio fosse bat-tezzato e si chiamava Curra perché quando la contadina col becchimenel grembiale chiamava curra, curra,egli era il primo ad accorrere.
Era già vigoroso, un galletto nel cui animo generoso albeggiava la com-battività. Sottile e lungo come una lama, esigeva la madre prima ditutto perché lo ammirasse: la madre di cui si diceva che sapesse pro-curare ogni dolcezza e perciò anche la soddisfazione dell’ambizione edella vanità!Un giorno, risoluto, Curra con un balzo sgusciò fuori della siepe che,fitta, contornava il giardino natio. All’aperto subito sostò intontito.Dove trovare la madre nell’immensità di quella valle su cui un cieloazzurro sovrastava ancora più esteso? A lui, tanto piccolo, non era pos-sibile di frugare in quell’immensità. Perciò non s’allontanò di troppodal giardino natio, il mondo che conosceva, e, pensieroso, ne fece il giro. Così capitò dinanzi alla siepe dell’altro giardino.«Se la mamma fosse qui dentro» pensò «la troverei subito.» Sottrat-tosi all’imbarazzo dell’infinito spazio, non ebbe altre esitazioni. Con unbalzo attraversò anche quella siepe, e si trovò in un giardino molto si-mile a quello donde veniva.Anche qui v’era uno sciame di pulcini giovanissimi che si dibattevanonell’erba folta. Ma qui v’era anche un animale che nell’altro giardinomancava. Un pulcino enorme, forse dieci volte più grosso di Curra,troneggiava in mezzo agli animalucci coperti di sola peluria, i quali –lo si vedeva subito – consideravano il grosso, poderoso animale qualeloro capo e protettore. Ed esso badava a tutti. Mandava un ammoni-mento a chi di troppo s’allontanava, con dei suoni molto simili aquelli con cui la contadina nell’altro giardino usava coi propri pulcini.Però faceva anche dell’altro. Ad ogni tratto si piegava sui più deboli co-prendoli con tutto il suo corpo, certo per comunicar loro il propriocalore.«Questa è la madre» pensò Curra con gioia. «L’ho trovata ed ora nonla lascio più. Come m’amerà! Io sono più forte e più bello di tutti co-storo. Eppoi mi sarà facile di essere obbediente perché già l’amo.Com’è bella e maestosa! L’aiuterò anche a proteggere tutti cotesti in-sensati.»Senza guardarlo la madre chiamò. Curra s’avvicinò credendo di esserechiamato proprio lui. La vide occupata a smovere la terra con dei colpirapidi degli artigli poderosi, e sostò curioso di quell’opera cui egli as-sisteva per la prima volta. Quand’essa si fermò, un piccolo vermicellosi torceva dinanzi a lei sul terreno denudato dall’erba. Ora essa chioc-ciava mentre i piccini a lei d’intorno non comprendevano e la guarda-vano estatici.
«Sciocchi!» pensò Curra. «Non intendono neppure che essa vuoleche mangino quel vermicello.» E, sempre spinto dal suo entusiasmod’obbedienza, rapido si precipitò sulla preda e l’ingoiò.E allora – povero Curra – la madre si lanciò su lui furibonda. Non su-bito egli comprese, perché ebbe anche il dubbio ch’essa, che l’avevaappena trovato, volesse accarezzarlo con grande furia. Egli avrebbe ac-cettato riconoscente tutte le carezze di cui egli non sapeva nulla, e cheperciò ammetteva potessero far male. Ma i colpi del duro becco, chepiovvero su lui, certo non erano baci e gli tolsero ogni dubbio. Vollefuggire, ma il grosso uccello lo urtò e, ribaltatolo, gli saltò addosso im-mergendogli gli artigli nel ventre.Con uno sforzo immane, Curra si rizzò e corse alla siepe. Nella suapazza corsa ribaltò dei pulcini che stettero lì con le gambucce all’ariapigolando disperatamente. Perciò egli poté salvarsi perché la sua ne-mica sostò per un istante presso i caduti. Arrivato alla siepe, Curra,con un balzo, ad onta di tanti rami e sterpi, portò il suo piccolo edagile corpo all’aperto.La madre, invece, fu arrestata da un intreccio fitto di fronde. E là essarimase maestosa guardando come da una finestra l’intruso che, esau-sto, s’era fermato anche lui. Lo guardava coi terribili occhi rotondi,rossi d’ira: – Chi sei tu che ti appropriasti il cibo ch’io con tanta faticaavevo scavato dal suolo?– Io sono Curra – disse umilmente il pulcino. – Ma tu chi sei e perchémi facesti tanto male?Alle due domande essa non diede che una sola risposta: – Io sono lamadre, – e, sdegnosamente, gli volse il dorso.Qualche tempo appresso, Curra, oramai un magnifico gallo di razza,si trovava in tutt’altro pollaio. E un giorno sentì parlare da tutti i suoinuovi compagni con affetto e rimpianto della madre loro.Ammirando il proprio raro, atroce destino, egli disse con tristezza: – La madre mia, invece fu una bestiaccia orrenda, e sarebbe stato me-glio per me ch’io non l’avessi mai conosciuta.
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